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Script 46/47
La differenza seriale

Perché il racconto televisivo è oggi più avanti di quello cinematografico

Script, n. 46
2009

ISBN: 9788875270810
€ 15,00
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Sinossi

Yes, we could Editoriale di Dino Audino Sono passati cinquant’anni esatti da quando, nel 1959, a Cannes, Francois Truffaut presentava I quattrocento col­pi e inaugurava la stagione della Nou­velle Vague. Era l’affermazione della centralità del regista, la dichiarazione di indipendenza dal controllo dei produttori e dal potere dei distributori. Era l’inizio di una delle stagioni più feconde e controverse nella storia del cinema. Una rivoluzione culturale i cui esiti sono ancora oggi oggetto di dibattito. Da un lato a questa rivoluzione si può ascrivere il meglio del giovane cinema europeo e americano degli anni ’70, un fermento creativo di visioni e di idee che ha prodotto di­verse opere memorabili. Dal­l’altro a questa stessa rivoluzione si possono imputare infelici derive autorialistiche causate non soltanto dalle idee discusse e propugnate dalla Nouvelle Va­gue quanto da un ambiente culturale che, in Italia in particolare, trasformò quelle idee in ideologia del cinema d’autore, ponendo le basi per quella desertificazione di professionalità e ta­lenti che ha contraddistinto una intera generazione del cinema italiano. È singolare allora che questo importante anniversario sia stato poco o nulla ricordato proprio oggi che siamo in presenza di un ideale passaggio del testimone tra l’affermarsi dell’autore nella Nouvelle Vague di cinquant’anni fa e la centralità che l’autore ha oggi assunto nei processi creativi e produttivi della narrazione televisiva seriale, in particolare nel mondo anglosassone. Nel sistema produttivo statunitense, so­prattutto, il creatore di una serie tende sempre più a diventare writer-producer e con questo ruolo controlla che l’intero processo di realizzazione della serie sia coerente con quanto da lui creato. Dunque l’autore è ancora al centro di una rivoluzione culturale, con la differenza che allora l’autorialità veniva attribuita al regista relegando la sceneggiatura in una posizione del tutto eventuale e vicaria, e oggi invece l’affermarsi della narrativa televisiva e delle sue stra­ordinarie potenzialità mettono al centro della rivendicazione d’autorialità lo sceneggiatore e la sceneggiatura. Ma non è questa l’unica differenza. Do­ve la rivoluzione del 1959 veniva proclamata in nome dell’arte contro un’idea di industria, quella del 2009 invece si proclama in nome di una visione as­solutamente moderna dell’industria, che deve rimettere al centro il valore dell’originalità e della differenza autoriale per riconquistare una piena efficienza editoriale ed economica. Ma la rivoluzione della Nouvelle Va­gue non era arrivata all’improvviso. Ci erano voluti dieci anni di battaglie culturali, a partire dal famoso articolo di Alexandre Astruc del 1948 sulla teoria della camera-stylo. Poi, via via le pa­gine dei «Cahiers du Cinema», con gli interventi dei giovanissimi futuri “au­tori”, avevano preparato e diffuso i valori e le categorie intellettuali necessari all’affermarsi del nuovo cinema. In Italia oggi, purtroppo, non sono al­trettanto diffuse e sedimentate le ra­gioni di ordine teorico, editoriale e in­dustriale necessarie alla nuova rivoluzione degli autori-sceneggiatori. La televisione in Italia è ancora guardata con sospetto da molti. Persino tanti autori ed editori ritengono che il prodotto televisivo sia per natura propria destinato a usi sociali ed estetici minori. Molti sono convinti che il ci­nema si faccia per la qualità, la televisione per la sopravvivenza. Che una fiction non possa mai in nessun caso essere bella come un film. Solo a stento e in pochi iniziano a ra­gionare sullo specifico della televisione, sull’estetica e la narratologia del racconto seriale, su un’idea di qualità che non sia minore ma differente da quella del cinema. Quasi nessuno de­dica ancora un adeguato sforzo di analisi alle grandi opere della serialità americana che hanno fidelizzato in tut­to il mondo il pubblico colto e quello popolare. Nessuno infine produce un’analisi adeguata sulle premesse po­litiche, economiche ed editoriali necessarie affinché il sistema producendo quantità e differenza possa spingersi verso l’innovazione e l’originalità. La narrativa seriale a molti non sembra ancora degna di tanti sforzi. Questo accade anche perché in Italia è ancora fortemente diffusa l’ideologia del regista autore, al punto che spesso siamo costretti a vedere il cartello “un film di…” col nome del regista anche nei titoli di una serie televisiva. E ve­diamo al contempo il nome dei soggettisti e degli sceneggiatori praticamente nascosto in un cartello schiacciato tra la fine del cast artistico e l’inizio di quello tecnico. D’altro canto, sul fronte degli autori, molti, tra quanti rivendicano la centralità degli sceneggiatori, portano avanti un’ideologia per certi aspetti simmetrica e contraria a quella del cinema d’autore. Un’ideologia cioè che, sottolineando il carattere industriale del prodotto, mette l’accento sul fatto che affidare il controllo della produzione agli sceneggiatori costituirebbe principalmente un modo per migliorare la funzionalità del processo produttivo. E sulla base di questa elencano una serie di richieste che portano l’esperienza dello showrunning a ridursi al­la definizione di nuovi poteri, ruoli e funzioni. E così facendo finiscono per teorizzare questo nuovo modello produttivo come un diritto per tutti, mentre dovrebbe restare un’opportunità. In concreto pensiamo che la qualità editoriale di un’idea e la sua originalità debbano sempre costituire la premessa delle prerogative e delle mansioni che portano un autore al centro del processo e non il contrario. Vor­remmo cioè che, come negli Stati Uniti, il principio fosse che le buone idee fanno promuovere il loro autore allo status di headwriter e non che una volta creato l’headwriter l’idea buona sia per forza la sua. Perché questo porterebbe nel cuore della rivoluzione di oggi tutte le degenerazioni ideologiche della rivoluzione di cinquant’anni fa. Ma dagli USA torniamo in Italia. Da ciò che potrebbe essere a ciò che è. L’attuale panorama della fiction italiana ha offerto in questa stagione almeno due serie di grande livello diversissime tra loro per genere, formato e impianto linguistico ma riconducibili a nostro pa­rere a un elemento che le accomuna e che sta alla base del loro successo. Romanzo criminale e Tutti pazzi per amore – perché di queste parliamo – sembrano dimostrare che anche in Italia, nel nostro anomalo sistema duopolistico, qualcosa di molto innovativo possa co­munque emergere. Così, il successo di ascolti e di critica raccolto dalle due serie potrebbe prestarsi a un’interpretazione ambigua e fornire la classica fo­glia di fico. Si potrebbe sostenere in­fatti che la loro riuscita dimostri come il problema non risieda nelle attuali mo­dalità di produzione o in presunti meccanismi condizionanti, quanto piuttosto negli autori e nei copioni, perché quando le storie sono buone il prodotto viene bene. Ma a chi offre questa lettura di quel successo è facile rispondere che, se si analizza da vicino Romanzo da una parte e Tutti pazzi dall’altra, ci si rende conto che la loro qualità deve molto, al di là della creatività degli autori, alle modalità produttive straordinarie e straordinariamente simili che le accomunano. Proviamo a elencarle: 1. Entrambi i progetti nascono da intuizioni editoriali e atti di coraggio dei network. Entrambi, finalmente, non derivano dalla rielaborazione di format stranieri ma sono progetti originali. Una commessa riguardante in un caso la serializzazione di un best seller noir che non tradisca il concept originario, nell’altro l’invito a creare una commedia sentimentale linguisticamente originale in una fa­miglia ben al di là della norma: due bellissime sfide per gli scrittori. Molto meglio che essere costretti a “sceneggiare un contratto” per un attore, un “contratto di volume” per un produttore, “un contratto di potere” per un politico. 2. Gli scrittori sono stati scelti sulla base di meriti professionali chiaramente affermati ma anche su caratteristiche personali di competenza in quel determinato genere, e quindi assolutamente pertinenti col progetto che si voleva realizzare. Lo stesso criterio è stato adottato nella scelta dei registi, culturalmente e generazionalmente congrui e compatibili non solo con il progetto ma anche con gli sceneggiatori. E lo stesso criterio di professionalità e pertinenza, non altro, ha guidato il casting. E tutto questo ha permesso un circolo virtuoso tra la fase di sviluppo e quella di messa in scena. 3. I produttori e i network hanno offerto sempre un forte sostegno a difesa del progetto, anche nei momenti più critici dello sviluppo. 4. Gli scrittori hanno sviluppato il progetto con grandissima autonomia creativa pur all’interno dei paletti fissati dalla committenza e all’interno di un fisiologico ma sempre corretto confronto con il network. In sostanza, senza dover subire invasioni di campo né dover mediare al ribasso per evitarle. 5. Gli scrittori hanno potuto lavorare in tempi umani avendo la possibilità di scrivere e riscrivere fino a un risultato considerato da tutti convincente, senza essere strozzati da scadenze di palinsesto invereconde. 6. I registi hanno rispettato le sceneggiature e, sia pure con parere consultivo, hanno coinvolto gli sceneggiatori sia nel casting, sia in alcuni momenti delicati della messa in sce­na, sia in alcune scelte di montaggio. «Tutto qui?» potrebbe dire un amico americano. Dov’è la straordinarietà? Quanto descritto è quello che banalmente avviene in ogni sistema produttivo sano. È il normale esplicarsi di procedure normali in un paese normale. Ma noi non lo siamo, il nostro sistema “normalmente” non permette di esserlo. Ma quando lo si è, non a caso arrivano Romanzo criminale e Tutti pazzi per amore. Ovviamente produrre in modo sano non costituisce la ricetta del successo, ma è certo il modo più efficace per evitare che un buon progetto nel corso della realizzazione si trasformi in qualcosa di mediocre. In altri termini nella catena di montaggio entri il progetto di una Ferrari e esca una Seicento Multipla. Ma una domanda a questo punto è ancora senza risposta. Come è stato possibile produrre in modo corretto all’interno di un sistema distorto? Per i pessimisti e gli scettici Romanzo e Tutti pazzi non sono che il risultato fortunoso di una somma di casualità, rivoli di qualità filtrati dalle crepe di un sistema in decadenza. A noi invece piace pensare, sulla base di tanti altri segnali pervenuti nelle ultime stagioni, che le due serie siano il frutto di una crescita di cultura e consapevolezza interna a produzioni e network. E testimonino un ampliarsi di quegli ambiti di libertà, responsabilità e professionalità individuali che sono sempre propedeutici a qualsiasi riforma strutturale. Se così fosse sarebbe un bel segnale. Perché significherebbe che pur stretti nella morsa di un duopolio che, per quanto lesionato, è ancora forte, pur inquinati da un Pa­lazzo che, al di là delle dichiarazioni di facciata, continua a tracimare tendendo a contaminare ogni competenza, pur tra apocalissi e integrazione, nell’attesa messianica di una riforma del servizio pubblico “alla BBC”, di nuovi competitor che rompano il duopolio, di uno showrunning che trasformi il writer in producer, pur considerando tutto questo, possiamo ancora cercare uno spazio di lavoro praticabile che si basi sul riconoscimento del merito, sulla divisione chiara di ruoli e funzioni e sul rispetto delle proprie competenze e di quelle altrui. Questo ci dimostrano Romanzo criminale e Tutti pazzi per amore, felici eccezioni che ci riportano alle regole. Verrebbe finalmente da dire: «Yes, we can». Ma siamo in Italia, limitiamoci a: «Yes, we could».

Indice

Yes, we could di Dino Audino La differenza seriale. Quello che il cinema non sarà mai capace di raccontare di Nicola Lusuardi La linea d’ombra della fiction italiana di Gino Ventriglia Speciale RomaFictionFest. Interviste a Francesco Gesualdi, Steve Della Casa, Mario Mauri a cura di Manuela Brogna, Elena Catozzi e Marina Loi Boris, la “fuoriserie italiana” a cura di Manuela Brogna e Marina Loi Tutti pazzi per amore. Intervista al produttore Carlo Bixio e al creatore Ivan Cotroneo a cura di Manuela Brogna «Il Dandy c’est moi». Intervista a Daniele Cesarano, co-autore di Romanzo criminale. La serie a cura di Fabio Morici Crimini, la collection. Intervista a Giancarlo De Cataldo a cura di Emanuela Cocco E se Montalbano fosse un “angelo protettore”? di Domenico Matteucci Non pensarci, la serie di Silvia Petrunti Lost, nascita e prima stagione. Parlano gli autori a cura di Carlo Dellonte e Giorgio Glaviano Grey’s Anatomy. La vita quotidiana non è mai stata così eccitante di Fabrizio Lucherini Grey Matter. Pensieri e parole di Shonda Rhimes tratti dal suo blog a cura di Giorgio Glaviano House, ovvero nella “casa” degli orrori. Perché House doveva chiamarsi House di Nicola Lusuardi E se In Treatment fosse un serraglio? di Domenico Matteucci Il contagio e lo scienziato. Forme e differenze del genere crime di Andrea Nobile Desperate Housewives. Quando L’Io non è più padrone in casa propria di Giovanna Guidoni Sex and the City. Serie tematizzata, serie fortunata di Uski Audino Life on Mars come l’ho scritto. Intervista a Ashley Pharoah a cura di Massimo Borriello 100autori per difendere storie e talento. Intervista a Stefano Rulli, presidente dell’Associazione 100autori a cura di Script Vogliamo il contratto nazionale. Intervista a Daniele Cesarano, presidente della SACT (Scrittori Associati di Cinema e Televisione) a cura di Script “Created by”. Perché solo gli autori possono salvare il sistema audiovisivo italiano di Nicola Lusuardi La mala bestia. Ovvero come (non) funziona il sistema audiovisivo italiano e come potrebbe funzionare di Francesco Scardamaglia Di cosa parliamo quando parliamo di “corsi, talento e regole” di Dino Audino Per una diversa idea di cinema di Dino Audino